Speriamo che sia dislessico
Non sarà dislessico?
Ecco una domanda che con sempre maggiore frequenza si sente fare da insegnanti, genitori, operatori scolastici e sanitari.
Di fronte ad un disagio scolastico, un ritardo nell’apprendimento, una scarsa motivazione, una inibizione, una forte distraibilità, un comportamento poco adattivo, un disordine psicomotorio, la domanda che oggi viene posta sempre più spesso è proprio questa.
Non sarà dislessico?
La domanda, per carità, è legittima.
Però incuriosisce come mai sia aumentata in modo esponenziale la frequenza di indagini in questa direzione, a volte anche a scapito della formulazione di ipotesi diverse.
Viene quasi il sospetto che la diagnosi di dislessia faccia comodo a qualcuno.
Ma a chi?
Al sistema sanitario? Ai suoi operatori?
Al sistema scolastico? Ai suoi operatori?
Al bambino in difficoltà? Alla sua famiglia?
Potrà sembrare paradossale, ma per certi versi può davvero far comodo a tutti, tanto che non è raro che il “Non sarà dislessico?” si trasformi, più o meno consciamente, in “Speriamo che sia dislessico”.
Torneremo più avanti sui motivi per cui la dislessia tenda a volte a trasformarsi magicamente da sindrome a cura del disagio:
si tratta indubbiamente di un meccanismo molto interessante e, ritengo, piuttosto nuovo.
Infatti, se fin’ora una diagnosi di tipo neurologico, psicologico o neuropsichiatrico rischiava di essere vissuta come un’etichetta con conseguenze discriminanti per il bambino, pare invece in questa fase che l’acclaramento della presenza della dislessia e, in misura minore, dei diversi Disturbi Specifici di Apprendimento (disgrafia, discalculia) abbia spesso la funzione di riabilitare e restituire dignità al disagio vissuto dal bambino, e quindi al bambino stesso e all’istituzione all’interno della quale il disagio si è manifestato.
Mi pare evidente che questo meccanismo possa a volte portare dei benefici; ma mi sembra anche che, se non viene esplorato convenientemente, possa portare al rischio di sottovalutazione di situazioni diverse: in fondo, se la dislessia è così “rassicurante”, se ha un protocollo di intervento tutto sommato abbastanza semplice da porre in atto, perché stressarsi ad indagare in altra direzioni?
La dislessia è una cosa seria
Non si vuole qui certo negare la serietà e l’importanza del problema: la dislessia è una cosa seria. Oggi è piuttosto facile per chiunque documentarsi per conoscere e imparare a riconoscerne cause, effetti, possibilità di intervento. Vale comunque la pena di sottolineare alcuni elementi importanti per sapere si cosa stiamo parlando.
Si parla di Disturbo Specifico di Apprendimento (D.S.A.) quando un bambino mostra delle difficoltà isolate e circoscritte nella lettura, nella scrittura e nel calcolo, in una situazione in cui il livello scolastico globale e lo sviluppo intellettivo sono nella norma e non sono presenti deficit sensoriali.
In primo luogo è necessario fare un'importante distinzione tra disturbi specifici di apprendimento e disturbi generici.
I disturbi specifici di apprendimento:
si manifestano in bambini con adeguate capacità cognitive, uditive, visive e compaiono con l'inizio dell'insegnamento scolastico. Per stabilire la presenza di D.S.A. si utilizza generalmente il criterio della "discrepanza": esso consiste in uno scarto significativo tra le abilità intellettive (Quoziente Intellettivo nella norma) e le abilità nella scrittura, lettura e calcolo;
I disturbi generici o aspecifici di apprendimento:
si manifestano nei bambini con disabilità sensoriali (ad esempio, di udito o vista) o neurologica e/o con ritardo mentale.
I problemi possono essere riscontrati in tutte le aree di apprendimento (lettura, calcolo ed espressione scritta) e interferiscono in modo significativo con l'apprendimento scolastico.
Per esempio, bisogna distinguere con chiarezza la dislessia e gli altri D.S.A. dalle difficoltà di apprendimento scolastico. I primi sono disturbi che ostacolano l'acquisizione di abilità strumentali che la stragrande maggioranza degli alunni conquista senza sforzo, mentre le difficoltà scolastiche riguardano le difficoltà e le fatiche di imparare, difficoltà e fatiche che tutti abbiamo sperimentato e che fanno parte dei processi di apprendimento. Mentre nessuno di noi ricorda le fatiche per imparare a leggere ad alta voce e a scrivere (tranne i dislessici), tutti abbiamo memoria di sforzi e ostacoli incontrati per imparare la differenza tra area, perimetro o volume, ecc. Per capire cosa sono i D.S.A. bisogna prima di tutto distinguerli da queste fatiche, evitare di fare di tutta l'erba un fascio.
(Vademecum Dislessia www.scuolamediatodi.it )
Questo mi sembra davvero fondamentale, perchè porta a fare scelte didattiche differenti: con un bambino dislessico opterò magari anche a favore di strategie di apprendimento compensativo che privilegino, ad esempio, l'uso di strumenti multimediali, o le abilità di sintesi verbale, ecc...
Con un alunno che ha disturbi generici dell'apprendimento, per esempio un ritardo nell'acquisizione dei concetti spaziali, opterò invece per strategie di apprendimento che favoriscano l'acquisizione di questi concetti (esercizi di orientamento spaziale, giochi psicomotori etc...) e non che favoriscano strategie compensative.
Dunque non è affatto insensato che una diagnosi di dislessia venga fatta, come suggeriscono gli specialisti, a fine seconda, inizio terza. Ricordo inoltre che, secondo i dettami dell'Associazione Italiana Dislessia, la diagnosi deve essere effettuata da un equipe multidisciplinare composta da Neuropsichiatra Infantile, Psicologo, Logopedista e Psicomotricista. Lo ricordo, e qui consentitemi un po' di verve polemica, anche perchè non sempre, nella mia esperienza, i suggerimenti e le indicazioni di alcuni cosiddetti "specialisti" si sono rivelate adeguate o efficaci.
Ricordo invece con piacere ed orgoglio professionale che esistono professionisti molto seri ed estremamente competenti, capaci di affrontare il problema della dislessia con grande diligenza e anche con una buona dose di creatività, riuscendo così a facilitare lo sviluppo cognitivo dei soggetti affetti da questa sindrome senza cercare facili conclusioni, ma approfondendo in modo intelligente la complessità delle problematiche che essi pongono.
Utilizzo Magico della dislessia
Dunque, sia ben chiaro, concordo senza riserve sul fatto che sia opportuno e doveroso riconoscere portatori di dislessia e aiutarli in modo adeguato nei loro processi di apprendimento.
Vorrei però riflettere sulla tendenza che si sta affermando verso un utilizzo magico della dislessia, che a volte rischia di giustificare impropriamente un approccio superficiale al problema, diventando la panacea di tutti i mali e i disagi scolastici.
Vi sono alcune ragioni che facilitano l’utilizzo magico di questa sindrome:
1 L’eziologia è complessa, per molti versi ancora incerta.
Si parla di un disturbo specifico di origine costituzionale trasmissibile per via ereditaria, come il colore degli occhi, i lineamenti del viso, la tendenza all’obesità, alla longilineità, alla timidezza o all’aggressività.
Le cause organiche non sono ancora completamente note e sono state fatte diverse ipotesi: una prima teoria suppone una “disconnessione funzionale” fra i centri cerebrali deputati alla decodifica della lettura (Geschwind, 1965; Marshall, 1983); viene ipotizzato un deficit del processamento fonologico che determinerebbe una difficoltà dei ragazzi dislessici a manipolare i suoni (per esempio ad effettuare lo spelling delle parole) e nel passare dal codice visivo a quello uditivo e viceversa (Frith, 2002).
Una seconda teoria parla della difficoltà di orientare l’attenzione in modo selettivo da sinistra a destra e di inibire correttamente gli stimoli visivi, creando così un eccesso di informazioni e una conseguente difficoltà a discriminarle correttamente (Geiger e Lettvin, 1999).
Una terza teoria ipotizza una mielinizzazione (ricopertura delle cellule nervose) incompleta che non permette un’attenzione focalizzata verso gli stimoli visivi e una conseguente difficoltà di discriminazione e decodifica degli stimoli visivi che stanno alla base della lettura (Bakker, 1998).
In ogni caso la sindrome non è ad oggi accertabile con un esame neurologico, e viene diagnosticata in base a test prestazionali, basati sulla correttezza, velocità e comprensione della lettura. Sappiamo però come qualsiasi test prestazionale, per quanto venga somministrato correttamente da personale esperto, possa essere condizionato da molti fattori diversi, di tipo emotivo, relazionale, ma anche socioculturale, motivazionale, eccetera. Può succedere che il risultato del test sia compatibile con una diagnosi di dislessia, pur essendoci cause diverse che provocano una difficoltà di lettura; e questo può succedere più frequentemente se l’esaminatore vuole, o più semplicemente si aspetta, un certo risultato.
2 Alcuni protocolli di intervento sono relativamente semplici da somministrare, in quanto utilizzano per lo più procedure informatiche standardizzate:
questo naturalmente semplifica il compito dell’operatore, e sovente diventa una rassicurazione per insegnanti e genitori, che evitano di veder messo il crisi il proprio “modus operandi” e possono delegare al computer una buona parte della funzione di cura del disagio.
3 Bambino, famiglia, istituzione scolastica si sentono “presi in carico”:
soprattutto viene loro assicurato che la causa del disagio ha motivazioni scientificamente spiegabili, e di norma curabili, come un’influenza o una parotite. Il disagio viene etichettato e catalogato in modo comprensibile e socialmente accettabile.
4 L’evoluzione della tecnologia permette ora di accedere con facilità ad un elevato numero di strumenti compensativi (audiolibri, video…), che tra l’altro sono estremamente compatibili con le modalità di comunicazione oggi utilizzate da internet.
Questi ed altri motivi facilitano la diagnosi e fanno sì che essere dislessico possa diventare in qualche caso quasi desiderabile. Ho sentito con le mie orecchie questo commento di una madre: “mio figlio sta facendo gli esami della dislessia; speriamo che glie la trovino, altrimenti vuol dire che è deficiente!”
Se l’alternativa è questa, è chiaro che la dislessia assume un aspetto rassicurante.
Inoltre, una ricerca non so quanto attendibile ma certamente molto sbandierata, afferma che molti personaggi di successo hanno sofferto di dislessia. Tra gli altri citiamo:
Muhammad Ali (alias Cassius Clay) (pugile), Hans Christian Andersen (scrittore), Napoleone Bonaparte (generale), Carlo Magno (imperatore del Sacro Romano Impero), Winston Churchill (primo ministro del Regno Unito), Tom Cruise (attore), Leonardo da Vinci (scienziato), Walt Disney (fondatore della The Walt Disney Company), Albert Einstein (scienziato), Henry Ford (imprenditore), Galileo Galilei (scienziato), Bruce Jenner (decatleta), Greg Louganis (tuffatore), Isaac Newton (fisico), George Patton (generale), Pablo Picasso (pittore), Quentin Tarantino (regista), James van der Beek (attore), George Washington (primo presidente degli Stati Uniti). (vedi per es. su www.braingym.it )
Come si vede, un elenco importante: chi non vorrebbe trovarsi in così buona compagnia? Scienziati, artisti, personaggi politici di primo piano, sportivi, addirittura un famoso truffatore.
A me però qualche dubbio sull’attendibilità della diagnosi di Carlo Magno, o Galileo Galilei, o Napoleone Bonaparte, rimane; che tipo di test avranno usato? E’ davvero così facile e realmente credibile diagnosticare una sindrome neurologica a personaggi storici, senza neanche un forse o un punto interrogativo?
Inoltre, un po’ malignamente, mi domando: ammesso che un Galileo Galilei o un Leonardo da Vinci fossero realmente dislessici, non è che sono diventati quello che sono anche perchè hanno saputo compensare con il loro cervello, costruendo in modo magari inconsapevole mappe concettuali adeguate, e non con delle tecnologie preconfezionate, un handicap di partenza? Forse proprio questo li ha stimolati a sviluppare e incrementare la loro genialità.
Effetti collaterali
Comunque, se ci fosse solo l’aspetto rassicurante e sdrammatizzante, niente di male: avremmo nelle
scuole qualche “deficiente” in meno e un maggior numero di bambini che si sentono presi in carico.
Il fatto è che, purtroppo, vedo alcune controindicazioni ed effetti collaterali.
1 Se un bambino viene impropriamente trattato come un dislessico, e si abitua ad utilizzare con troppa frequenza strumenti compensativi, diventerà con ogni probabilità un pessimo lettore: sarà quindi privato di un magnifico strumento di piacere (che bello perdersi in un buon libro!) e di accesso alla cultura; d’accordo, adesso prevale la cultura della immagine ma, accidenti, leggere rimane uno strumento fondamentale, e dovere fondamentale della scuola rimane quello di insegnare ad amare la lettura.
2 Come detto in precedenza, le cause di una difficoltà nella lettoscrittura possono essere molteplici: possono avere origini relazionali o comportamentali; possono contenere importanti ragioni motivazionali; possono essere legate a un semplice ritardo nell’evoluzione psicomotoria; ecc… Il bambino prova un disagio ed è possibile che elabori come sintomo la difficoltà in questione. Ora però se noi trattiamo il sintomo in modo tecnico, senza approfondire quale possa essere la causa scatenante, può essere, come a volte accade in medicina, che il sintomo scompaia, ma il disagio rimanga; e se il disagio rimane e non viene in qualche modo elaborato troverà sicuramente altre strade, altri sintomi per esprimersi, e non è detto che non siano sintomi peggiori di una difficoltà nell’apprendimento nella lettoscrittura.
Allora forse vale la pena di essere, o rimanere, osservatori attenti, curiosi, senza cadere nella tentazione di semplificare troppo: la magia, usata con garbo, come nelle fiabe, può essere d’aiuto; ma se ne abusiamo, il rischio è quello di trasformare il principe in un rospo.
Non dimentichiamo che l’appellativo dislessico, se usato impropriamente o con superficialità, rimane un’etichetta: magari funzionale, ma pur sempre un’etichetta. Voglio qui ricordare che la parola etichetta, in questo contesto, significa piccola etica ; io vorrei che facessimo lo sforzo di recuperare un’etica più grande, più complessa, che ci consenta di rapportarci ai bisogni dei bambini in modo più profondo.
Credo anche che dobbiamo "nutrire" la nostra capacità di distinguere i problemi reali dalle mode: fino a non molto tempo fa era di moda l' ADHD, e molti bambini sono di colpo diventati iperattivi (qualcuno, per fortuna non in Italia, curato con uno psicofarmaco, il Ritalin, decisamente molto pesante).
Ora è il turno dei Disturbi Specifici dell'Apprendimento, forse perchè recentemente hanno fatto qualche corso di aggiornamento di troppo per psicologi e insegnanti: quanti dislessici o discalculici dovremo contare fino alla prossima moda?
Non dico di non affrontare il problema, ci mancherebbe; soltanto di fare attenzione a non farsi abbagliare dalla “magia” del momento.
Oppure giochiamo...
Da bravo psicomotricista, ho imparato che il gioco serve spesso a far evolvere, a comprendere meglio anche le situazioni più problematiche. Allora perché non provare a giocare?
Gioco n. 1: cerca ancora un dislessico “storico”
Cristoforo Colombo (navigatore): ha scoperto l’America per errore; forse ha sbagliato a leggere la cartina…
Re Artù (monarca): aveva difficoltà a distinguere le forme; pensava che le tavole fossero rotonde…
Giuseppe Ungaretti (poeta): forse le sue poesie erano così brevi per evitare problemi di lettura…
Saffo (poetessa): anzi, lei è meglio escluderla; non vorrei che qualche adolescente con problemi di lettura la leggesse dislesbica…
E tu, sei capace di scovare altri personaggi famosi?
Gioco n. 2: inventa la tua sindrome
Esempio 1: io non trovo le cose.
“Dov’è lo schiacciapatate?” “Nel terzo cassetto” “Non lo trovo...” “Allora guarda nello scolapiatti” “Non c’è.” “Non è possibile, forse l’hai lasciato in cantina...” “Dai, non lo trovo, aiutami a cercarlo, per favore!” ...e lo schiacciapatate era nel terzo cassetto. Mia moglie si innervosisce, mi accusa di non guardare con attenzione, ma davvero io fatico a trovare le cose.
Allora posso inventare la mia sindrome: sono distrovico! Se trovo uno psicologo che me la certifica, anche mia moglie smetterà di accusarmi e sarà più comprensiva, magari inventeremo un sistema coi bigliettini che mi faciliterà il compito, e la serenità famigliare ci guadagnerà sicuramente.
Esempio 2: un mio amico ha una grossa difficoltà a ricordare i nomi delle persone. Questo lo espone a volte a situazioni imbarazzanti, alcuni arrivano a giudicarlo superficiale o troppo egocentrico per prestare sufficiente attenzione agli altri: se fosse un disnomico, probabilmente la gente si mostrerebbe più comprensiva…
E tu, cosa aspetti a inventare la tua sindrome?
Conclusioni
Non si offendano gli intellettuali seri: il gioco, se usato correttamente e consapevolmente, non serve a banalizzare; tutt’altro, serve a stimolare il pensiero in modo creativo e critico.
Non si offendano neppure gli operatori seri: ho già detto che il problema della dislessia va affrontato con professionalità e consapevolezza.
Ciò che mi preme è che la dislessia non diventi una moda, e le modalità per affrontarla una via di fuga dall’affrontare altri problemi, quando ci sono (magari pure risparmiando sugli insegnanti di sostegno).
Dott. Carlo Petitti
Pubblicato su Strumenti Cres n. 59 – giugno 2012
illustrazioni di Federico Tosi